Il Teatro del “famolo strano”

Posted on 18 Gennaio 2021Commenti disabilitati su Il Teatro del “famolo strano”

In un giorno di giugno degli anni Ottanta, mi ritrovai in una saletta del Senato dove Giorgio Strehler stava presentando la sua proposta di legge sul teatro. Di quella legge non se ne fece nulla, ma ricordo perfettamente una frase che il grande maestro pronunciò davanti a noi sollevandone viva approvazione. Fermandosi sornione sull’articolo 40 di quella legge che aveva come titoletto “Teatro di ricerca”, Strehler ci confessò: “mi hanno suggerito che nella mia proposta debba esserci una attenzione ai cosiddetti teatri di ricerca. Ma, dico io, va bene, d’accordo mettiamola. Solo non capisco una cosa. Sono quaranta anni che con il mio teatro credo di fare ricerca e non credo io debba stare dentro questo articolo, perché il teatro o è ricerca o non è nulla!”.

A distanza di decenni mi sento di condividere ancora quella dichiarazione di intenti, e di sbandierarla con onore ed orgoglio di appartenenza davanti ai giovanili furori di novelli futuristi che, a parole, si pongono all’avanguardia del percorso teatrale contemporaneo. Per carità, nessun intento di fustigazione provo verso di loro, solo una certa tenerezza riempita invero dall’amara visione che li accompagna sull’inflazionato rotocalco del web a firma di una costante miopia della sparita – ma non sparuta – critica militante teatrale. La quale critica, non sapendo che scrivere, non sapendo cosa vedere, inneggia continuamente al nuovo, comunque sia, dovunque sia, pur che sia nuovo.

Eh, già, il nuovo! A dirlo così ci spinge quasi ad essere d’accordo. Ma a vederlo, questo nuovo, che cos’è?!

È per caso il furore estatico di Carmelo Bene che infrange i confini dei fonemi per declinare le altezze evocative di Majakovskij? O lo sberleffo cosmico e comico di Leo de Berardinis nel suo Totò principe di Danimarca? O ancora l’apocalittico Paradise now, del Living Theatre, dove il nudo non era inutile oscenità, ma smacco crudele e distruttivo al conformismo borghese? È ancora questo, il nuovo più nuovo, con i dovuti aggiornamenti, che i giovani virgulti del “famolo strano” ci propongono sui palcoscenici da qualche anno? Ahimè no. Purtroppo sono solo replicate copie d’una Avanguardia che fu.

Perché non basta mettere in abiti moderni una tragedia classica per rinnovare il modulo di ricerca sul mito, o mettere in scena ragazzi non normodotati per scimmiottare Tadeus Kantor, o replicare dei nudi in proscenio per far dimenticare quelli di Julien Beck! No, davvero, non basta proprio. Perché gli originali nascevano dall’urgenza di quella che Artaud chiamava la fame. Nascevano come espressione pura, ma di rottura, di schemi che quei signori della scena contemporanea avevano prima assimilati, poi digerito infine rigettato. Non avevano preso scorciatoie, e soprattutto non reagivano per frustrate inadeguatezze che l’ambiente teatrale attorno a loro non sapeva cogliere. Il loro testo della vita vissuta era vero, tanto quanto la carica rivoluzionaria che un vero teatro di ricerca dovrebbe avere.

Oggi, per lo più, dei personaggi benestanti, arrivati al teatro per noia o per altro di cui è meglio non dire, si sono scelti il loro posto al sole nel disabitato regno del cosiddetto teatro di ricerca. Ma senza l’urgenza necessaria, senza l’urlo necessario, senza la necessaria volontà di esorcizzare la fame di sapere, conoscere e superare i limiti umani del conformismo borghese che le nutre. Questo è il punto. Questo è l’ironico limite del loro fare quel tipo di teatro. E questa debolezza si coglie nei risultati. Il pubblico non ne è sconvolto, ed invece dovrebbe esserlo se il risultato fosse sconvolgente. La censura non ha bisogno di abbattersi su loro, ed invece dovrebbe farlo se il prodotto risultasse opportunamente irridente e scandaloso. La critica, quant’anche ritornasse ad esserci quella vera, non si divide per loro e dovrebbe invece dividersi sul di loro giudizio per arrabbiarsi anche sulla provocazione innescata. Nulla. Calma piatta sul fronte del cosiddetto teatro di ricerca.

Pari al senso onesto e dignitoso di un teatro che persegue il genere comico e brillante delle commedie da godere nella necessità di una distrazione d’epoca. Ma almeno chi fa questo tipo di teatro non finge di farne un altro.

E allora perché, malgrado lo credano, nulla si muove?

Perché in fondo il motore di questa presunta ricerca, accigliata e impegnata a sembrare intelligente, altro non è che una scelta kierkegaardiana da aut aut: “come lo mettiamo in scena questa volta l’Antigone?… Ma, non so,… famolo strano, piacerà!”.

@Giuseppe Dipasquale